Avv. Piero Bassi – Avv. Alessandra Solfuri
Abstract: l’articolo che segue tratta dell’ammissibilità della consulenza tecnica in tema di prelazione e riscatto agrari, con particolare riguardo alla prova dei requisiti per l’esercizio del diritto di prelazione giungendo ad escluderne l’ammissibilità quando si tratti di “consulenza percipiente”, ed avvalorando riserve ove si tratti di “consulenza deducente”.
Il giudice ha come principale obbligo quello di conoscere ed interpretare il diritto positivo (jura novit curia), mentre non è certo tenuto alla conoscenza di qualsiasi altra scienza o tecnica. Indi, ogni volta che il giudicante debba risolvere problemi disciplinati da ambiti diversi da quelli giuridici, è la normativa stessa ad imporre al giudice di ricorrere a tecnici particolarmente esperti nella relativa disciplina, ossia a tecnici specializzati (consulenti) che fungono da ausiliari del giudice[1].
Ciò in quanto nel nostro ordinamento processuale, la consulenza tecnica (in qualsiasi ambito essa venga esperita) costituisce uno strumento rimesso alla discrezionalità del giudice, il quale, anche a prescindere dalle istanze delle parti, può decidere se avvalersi o meno dell’opera dei consulenti quando la risoluzione della causa concerne peculiari questioni tecniche che solo il tecnico è in grado di conoscere (giurisprudenza costante: per tutte, Cass. civ., 13.03.2009, n. 6155).
In particolare, la giurisprudenza distingue due forme di consulenza tecnica: la consulenza “deducente”, ove l’ausiliario del giudice è tenuto soltanto a valutare i fatti accertati o dati per esistenti dalle parti, e la consulenza “percipiente”, ove il consulente, pur basandosi su elementi allegati dalla parti, è tenuto ad esprimersi su fatti che possono essere esaminati ed accertati soltanto per mezzo delle competenze tecniche di cui dispone (ad esempio: Cass. civ., 22.01.2015, n. 1190).
[1] Si trascrivono gli articoli 61, 1° comma c.p.c., e 191, 1° comma c.p.c. (come modificati dalla riforma “Cartabia”), che dettano la disciplina in materia di consulenza:
art. 61, 1° comma c.p.c.: “Quando è necessario, il giudice può farsi assistere, per il compimento di singoli atti o per tutto il processo, da uno o più consulenti di particolare competenza tecnica”.
Art. 191, 1° comma c.p.c.: “Nei casi previsti dagli artt. 61 e seguenti il giudice istruttore, con ordinanza ai snsi dell’art. 183, quarto comma, o con altra successiva ordinanza, nomina un consulente, formula i quesiti e fissa l’udienza nella quel il consulente deve comparire”.
Certamente, entrambe le due forme di consulenza non possono prescindere dall’onere di allegazione che ricade sulle parti (principio dispositivo), ma mentre la consulenza deducente si riduce ad accertare, per mezzo del consulente nominato dal giudice, i fatti dedotti dalle parti dal punto di vista tecnico, la consulenza percipiente si spinge oltre, nel senso che il consulente può svolgere indagini (anche, in ipotesi, ulteriori rispetto a quelle demandate dal giudice), ove esse si rendano necessarie per rispondere al quesito affidato al CTU. In particolare questa seconda forma di consulenza, oltre a fornire al giudice la valutazione di fatti già probatoriamente acquisti, può costituire fonte oggettiva di prova quando si risolva anche in uno strumento di accertamento di situazioni rilevabili solo con il concorso di determinate cognizioni tecniche (fra le più recenti: Cass. civ., 09.05.2023, n. 12348; conforme Cass. civ., 06.12.2019, n. 31889; Cass. civ, 15.06.2018, n. 15774).
Tale principio subisce però un temperamento in materia di prelazione e riscatto agrari[2] ove, normalmente, occorre accertare la sussistenza dei requisiti necessari al prelazionante (sia esso coltivatore diretto, sia proprietario confinante) per esercitare l’azione di prelazione (e l’eventuale, succedanea, domanda di riscatto o retratto), requisiti che non possono essere provati tramite il ricorso alla consulenza tecnica, bensì solo dalle parti.
[2] Per prelazione agraria si intende il diritto di un soggetto ad essere preferito ad un altro, a parità di condizioni, nella stipulazione di un negozio giuridico, secondo criteri legali o secondo la volontà delle parti coinvolte. L’azione di mera prelazione si esercita quando fra le parti (venditore ed acquirente) esista soltanto un accordo non avente effetto reale, ossia una promessa di vendita o un preliminare di vendita, quindi quando ancora non sia presente un negozio che di fronte ai terzi certifichi l’avvenuto trasferimento del bene immobile.La legge distingue due tipi di prelazione agraria: la prelazione dell’affittuario coltivatore diretto, e la prelazione del confinante. In ogni caso, il prelazionante verrà sempre preferito al terzo acquirente ove sia in possesso di determinati requisiti che si diversificano a seconda delle due fattispecie. Si definisce riscatto, il diritto potestativo che consente al prelazionante di subentrare nel diritto del terzo acquirente nei confronti dell’alienante, quando sia già stato stipulato un contratto ad effetto reale, ossia quando sia stato effettuato e trascritto il cosiddetto “rogito” avente definitivo effetto reale e sia avvenuta la consegna del fondo compravenduto. In materia agraria il riscatto consente al prelazionante di subentrare all’acquirente nell’acquisto del fondo venduto a prescindere dalla propria qualifica.
Sul punto, parte della giurisprudenza ha chiarito che tali requisiti (o prerequisiti) costituiscono condizioni dell’azione, col che la mancanza anche di uno solo di essi determina il rigetto della domanda (Cass. civ., 28.07.2011; conforme: Cass. civ., 24.03.2000, n. 3538) .
Aderendo a tale interpretazione, affinché le domande di prelazione e di riscatto agrario possano trovare accoglimento, incombe sull’attore, ove affittuario coltivatore diretto, l’onere di provare la sussistenza in capo a sé di tutti i requisiti previsti dall’art. 8 legge 1965 n. 590 (Cass. civ., n. 5149/2001), con il temperamento previsto dalla legge 817/71 per il proprietario confinante per il quale è sufficiente ai fini della prelazione la qualifica di I.A.P. ; in caso contrario, ove manchi la prova anche di uno solo dei citati requisiti, la domanda attorea sarà rigettata.
[3] Quanto ai requisiti della prelazione:
a) l’art. 8 legge 590/65 che disciplina la prelazione del coltivatore diretto, individua quali requisiti per l’esercizio del diritto:
= la destinazione agricola dei terreni da prelazionare;
= l’obbligo del prelazionante di coltivare il terreno che intende prelazionare da almeno due anni;
= il possesso in capo all’attore della qualifica di coltivatore diretto;
= il possesso in capo all’attore di una forza lavorativa propria (sommata a quella dei famigliari) pari ad 1/3 di quella necessaria per condurre tutti i terreni di proprietà del prelazionante (ivi compresi quelli posseduti ad altro titolo e quelli che egli intende prelazionare);
= la circostanza di non aver venduto, nel biennio precedente all’esercizio della prelazione, terreni aventi un carico censuario superiore a lire 1.000.
A tali requisiti espressamente elencati dal 1° comma del citato articolo, i successivi commi aggiungono: a) l’obbligo di effettuare l’offerta reale del prezzo dei terreni che l’attore intende prelazionare nel termine di 6 mesi (termine così modificato dalla legge 77/2020); b) la necessaria autonomia colturale, produttiva e funzionale dei beni oggetto di prelazione, ivi compresi quelli oggetto di vendita estranei alla prelazione stessa, anche sotto l’aspetto della eventuale interclusione o della costituzione di vincoli (quali pesi e servitù) che compromettano tale autonomia colturale, produttiva e funzionale.
b) Quanto alla prelazione del confinante, essa è disciplinata dall’art. 7 della legge 817/71, la uale prequale stabilisce che il diritto di prelazione “spetta anche al coltivatore diretto proprietario di terreni confinanti con fondi offerti in vendita, purché sugli stessi non siano insediati mezzadri, coloni, affittuari, compartecipanti od enfiteuti coltivatori diretti” (figure, in realtà, tutte scomparse con l’applicazione della legge 203/82, e sostituite dal solo affittuario coltivatore diretto).
Pertanto, elementi da valutare ai fini dell’esercizio di tale diritto di prelazione sono:
= che si tratti di terreno agricolo;
= che sul fondo posto in vendita non siano insediati, sulla base di un titolo giuridico valido, coltivatori diretti, mezzadri, coloni, affittuari, compartecipanti od enfiteuti coltivatori diretti (indi coltivatori diretti);
= la contiguità e la coltivazione dei fondi (quello offerto in vendita e altro fondo contiguo);
= che sul fondo contiguo non sia insediato un proprietario coltivatore diretto il quale coltivi il fondo da almeno due anni e non abbia venduto, nel biennio precedente, altri fondi rustici di imponibile fondiario;
= la presenza di pluralità di confinanti.
Infine, la legge 28 luglio 2016, n. 154 che ha introdotto il numero 2-bis nel primo comma dell’art. 7 della legge 14 agosto 1971, n. 817, ha esteso tale forma di prelazione anche a colui che possiede la qualifica di I.A.P. (e non di coltivatore diretto) purché possieda tutti gli altri requisiti richiesti dalla norma, e purché coltivi un terreno confinante con quello che intende prelazionare.
[4] Per i requisiti del proprietario confinante vedi nota 2, lettera b).
Stando così le cose, è possibile sostenere che in materia di prelazione agraria non sia possibile il ricorso alla consulenza “percipiente”.
Ed infatti, se incombe sull’attore fornire la prova dei requisiti di cui all’art. 8 legge 590/1965 (in caso di affittuario coltivatore diretto), con il temperamento previsto dalla legge 817/71 per il proprietario confinante, il consulente eventualmente nominato dal Tribunale, per verificare la sussistenza dei detti requisiti, non potrà svolgere indagini esplorative (benché riguardanti questioni tecniche), poiché dovrà scrupolosamente attenersi a quanto allegato dall’attore, non potendo, il consulente stesso, sostituirsi al prelazionanate – riscattante nell’assolvimento dell’onere probatorio.
In caso contrario, la consulenza apparirà inammissibile, poiché svolta in violazione del principio dispositivo posto a carico delle parti, e conseguente violazione del principio del contraddittorio che postula la parità delle parti sul piano processuale. Benché tale conclusione appaia piuttosto stringente, un interessante spunto in tale direzione viene fornito da una recente sentenza di merito; ci riferiamo a Tribunale di Alessandria, 8 febbraio 2021 n. 116, edita sul sito dell’Osservatorio sulla criminalità e nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare. Nel caso di specie, il Tribunale, chiamato a pronunciarsi in materia di diritto di prelazione del confinante previsto dalla legge 817/71, come modificato dalla legge 28 luglio 2016, n. 154 (che, come detto in nota 2 lettera b, ha introdotto il numero 2-bis nel primo comma dell’art. 7 della legge 14 agosto 1971, n. 817)[1], ha affermato il principio di cui in massima: “il coltivatore del fondo confinante che, allegando la violazione del suo diritto di prelazione di cui alla legge 26 maggio 1965, n. 590, intenda esercitare il retratto, ha l’onere di provare il possesso di tutti i requisiti soggettivi e oggettivi previsti dalla
suddetta legge[1], ivi compreso quello relativo al possesso di una adeguata forza lavoro in grado di coltivare non solo la superficie oggetto della domanda di prelazione, ma l’intera superficie risultante dalla sommatoria del fondo posseduto e di quello retrattato”.
La sentenza in oggetto, richiamando l’orientamento in materia di onere probatorio sopra citato, afferma che spetta a colui che agisce in giudizio fornire la prova cumulativa della sussistenza delle condizioni dell’azione elencate più sopra.
Pertanto, il prelazionante che, allegando la violazione del suo diritto di prelazione, intenda esercitare il retratto, ha l’onere di provare il possesso di tutti i requisiti soggettivi e oggettivi della prelazione, ivi compreso quello relativo al possesso di una adeguata forza lavorativa in grado di coltivare non solo la superficie oggetto della domanda di prelazione, ma l’intera superficie risultante dalla sommatoria del fondo posseduto e di quello retrattato (Cass. civ., 24.07.2012, n. 12893, richiamata dalla esaminata sentenza di merito).
Il Tribunale però, si spinge oltre, affermando che in virtù del principio di non contestazione, debbono ritenersi provati i fatti che la controparte costituita non abbia specificamente contestato. Dunque, ove il convenuto, nella fattispecie di prelazione e/o retratto, non abbia espressamente contestato la sussistenza di uno dei requisiti previsti dall’art. 8 legge 590/1965 (con il temperamento di cui alla legge 817/71 per il proprietario confinante), tale requisito dovrà comunque ritenersi sussistente, e dovrà essere posto a fondamento della decisione del giudice quale fatto pacifico. Ne consegue che è onere del convenuto (prelazionato o riscattato – rettratato), il quale deve ritenersi a conoscenza di tutti i presupposti per il rigetto della domanda nei suoi confronti rivolta, individuare quali requisiti debbano ritenersi insussistenti nel caso di specie. In caso contrario, ove cioè il convenuto non ne sia a conoscenza, e non contesti la portata di ogni singolo requisito, essi dovranno intendersi provati senza necessità di ulteriore approfondimento istruttorio, esonerando l’attore dal provarli.
[5] Quindi consentendo al prelazionante confinante di esercitare la prelazione anche ove soltanto I.A.P..
[6] Per requisiti soggettivi si intendono quei requisiti che concernono la parte che esercita la prelazione; per requisiti oggettivi si intendono i requisiti che concernono il fondo.
Tale principio è stato sancito anche dalla S.C., la quale ha affermato che “anche nelle controversia in tema di riscatto o prelazione agraria la non contestazione del convenuto costituisce un comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell’oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, che dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato acquisito al materiale processuale e dovrà, perciò, ritenerlo sussistente, in quanto l’atteggiamento difensivo delle parti espunge il fatto stesso dall’ambito degli accertamenti richiesti” (Cass. civ., 7253/13).
Dunque, anche secondo la S.C., una contestazione generica da parte del convenuto circa la fondatezza o meno del diritto di prelazione e/o retratto da parte dell’attore, non è sufficiente, essendo necessaria una contestazione specifica su ogni singolo requisito. In caso contrario, ove ciò manchi, i requisiti sia soggettivi che oggettivi della prelazione, debbono considerarsi sussistenti e provati, con conseguente superfluità ed irrilevanza delle prove orali eventualmente dedotte da entrambe le parti sull’oggetto. Ovviamente, ove il principio di non contestazione concerna tutti i singoli requisiti richiesti dalla legge in materia di prelazione agraria, la mancata contestazione da parte del convenuto anche su uno soltanto di tali requisiti comporterà l’accoglimento della domanda attorea.
Ciò discende dal fatto che i requisiti previsti dalla legge per l’esercizio del diritto di prelazione agraria, sono posti nella disponibilità delle parti. Per tale motivo, la prova di tali requisiti rende superfluo il ricorso alla consulenza tecnica (in quanto, come visto, le parti debbono esserne a conoscenza), e rende inammissibile il ricorso ad una consulenza tecnica esplorativa, in quanto, così operando, il consulente si sostituirebbe alle parti.
A conferma di tale conclusione, citiamo un’ulteriore recente sentenza della S.C. (sentenza 1 marzo 2020, n. 7023) sempre dettata in materia di esercizio del diritto di riscatto di fondo rustico da parte del proprietario confinante (ma valida anche nel caso della prelazione dell’affittuario coltivatore diretto). Fra i vari motivi di ricorso dedotti dal ricorrente, il primo motivo concerneva la violazione e/o falsa applicazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c. comma 1 n. 3, degli artt. 8 e 31 L. 590/65 e art. 7 L. 817/71 in relazione all’art. 2697 c.c., disputandosi, nella specie, a quale delle parti dovesse spettare l’onere della prova in punto di esistenza o meno sul fondo oggetto di riscatto dell’insediamento di un coltivatore diretto da oltre un biennio. La S.C., in accoglimento del motivo di ricorso, ribadisce il principio che in materia di prelazione agraria grava sull’attore prelazionante – o riscattante- l’onere di dimostrare che sul fondo oggetto di riscatto non sussista la condizione impeditiva dello stabile insediamento di un coltivatore diretto, non trovando applicazione, nel caso di specie, il principio di “vicinanza della prova”, essendo in materia agraria le circostanze oggetto di prova perfettamente conoscibili ed accessibili da entrambe le parti (dunque nella disponibilità delle parti le quali sono tenute a conoscere la sussistenza o meno di tutti i requisiti della prelazione).
Il principio di vicinanza della prova, è un principio di elaborazione giurisprudenziale che ricorre nell’ipotesi in cui una delle parti si trovi in condizione di inferiorità e di limitato accesso alla fonte di prova, che invece si trova nella disponibilità diretta soltanto dell’altra e che ha lo scopo di riequilibrare, sul piano istruttorio, la posizione di attore e convenuto (Cass. civ., 19.11.2007, n. 23929).
Invero, nel caso della prelazione, quando le circostanze oggetto di prova sono pacificamente note ad entrambe le parti in causa, l’attore non può ricorrere a tale agevolazione, dovendo, come detto, l’attore stesso provare sia i propri requisiti soggettivi, che i requisiti oggettivi della prelazione; in caso contrario, ove egli non sia a conoscenza di tali requisiti, la propria domanda dovrà essere rigettata.
Pertanto, sulla base dei nuovi orientamenti giurisprudenziali sopra esaminati, è possibile concludere affermando che in materia agraria una consulenza tecnica di tipo “percipiente” non sia mai ammissibile, né possibile: essa infatti consentirebbe ad un terzo (come, di fatto, è il consulente tecnico nominato dal Tribunale) di ricercare fonti di prova più ampie rispetto a quanto posto nella disponibilità delle parti, e poiché, come visto, la giurisprudenza considera i requisiti soggettivi ed oggettivi della prelazione agraria (e del riscatto) condizioni dell’azione, ammettere una consulenza di questo tipo in tale materia, significherebbe violare i principi di riparto dell’onere probatorio previsti dall’ordinamento, con conseguente violazione del principio del contraddittorio e nullità insanabile della consulenza.
Quanto alla consulenza deducente, nel silenzio della giurisprudenza, il ricorso a tale mezzo di prova sarà limitato ai soli casi in cui si tratti di esaminare elementi tecnici che solo un tecnico specializzato nel settore possa chiarire, come nel caso in cui si tratti di esaminare documenti specifici in materia agraria, oppure ove si tratti di verificare la reale forza lavorativa del prelazionante o dei suoi famigliari, o ove si tratti di verificare l’autonomia colturale e produttiva dei fondi. In tutti gli altri casi, proprio per i principi sopra esaminati, anche tale forma di consulenza apparirà inammissibile, proprio perché rivolta a sostituirsi alle parti nell’adempiere all’onere probatorio posto a loro carico.
Avv. Piero Bassi
Avv. Alessandra Solfuri